La luce della sera verso sud

Guardando verso sud, dopo il tramonto, in queste sere d’autunno, come avrebbe detto Michele Lubrano,  una domanda sorge spontanea: che cosa è quella luce fulgida che, con il termine dei crepuscoli e il progredire della notte, diventa sempre più luminosa?

Ufo, oggetto volante non identificato, satellite spia?
Calma nessun mistero, ma tanto fascino, questo sì: si tratta del pianeta Giove, il gigante del nostro Sistema Solare, per la cronaca il quarto oggetto più luminoso del firmamento dopo Sole, Luna e Venere.
Un corpo massiccio e con un diametro 12 volte circa quello della Terra (144.000 km e spiccioli contro il 12.000 e frattaglie del nostro pianeta); e se il giro in 80 giorni vi sembrasse un’eternità, pensate se doveste realizzarlo sul pianeta più grande del nostro sistema planetario.
Giove, se già in un buon binocolo vi mostrerà un dischetto giallastro, in un telescopio vi svelerà le sue grandi bande equatoriali e la macchia rossa, oltre ai 4 satelliti galileiani (perché fu il nostro Galileo Galilei il primo a osservarli con il suo cannocchiale) all’anagrafe Io, Europa, Ganimede e Callisto che, notte dopo notte, sembrano danzare intorno al pianeta che per gli antichi rappresentava il Re dell’Olimpo.

Se queste poche righe non vi sembrassero sufficientemente affascinanti e misteriose ecco una cronaca risalente a poco meno di 30 anni fa, in grado di farvi balzare sulla sedia.
Una doverosa premessa: avrete sentito, più o meno spesso, parlare di Neo (Near Earth Object, ovvero oggetti spaziali che si avvicinano molto, troppo, alla Terra) e dei pericoli legati a un loro eventuale impatto con il nostro pianeta. Di quello che potrebbe succedere, in una situazione del genere, abbiamo avuto una preview proprio su Giove.
Se la cosa non vi dovesse spaventare troppo, provate a chiedere ai dinosauri… (ma questa è un’altra storia che racconteremo in una prossima puntata).
Eccoci dunque alla cronaca di quello che è considerato uno tra gli avvenimenti più spettacolari che la storia dell’astronomia ricordi, ovvero l’impatto della cometa Schoemaker-Levy 9 contro il pianeta Giove avvenuta nel luglio del 1994; dall’invenzione del telescopio, nessun fenomeno così spettacolare era stato osservato sulla superficie gioviana.

La vicenda della cometa cometa suicida aveva preso il via il 7 luglio 1992, quando si era avvicinata troppo al pianeta, nei pressi del quale transitava, secondo le stime degli astronomi, in un periodo compreso fra 20 e 100 anni. L’astro chiomato era passato a circa 20 000 chilometri al sopra la coltre di nubi che copre il pianeta e la forte attrazione gravitazionale di quest’ultimo, oltre a deviare la cometa, l’aveva spezzata in 21 frammenti principali aventi diametro un diametro compreso fra uno e quattro chilometri (oltre a svariati residui di dimensioni più piccole).

E fin qui siamo alle supposizioni postume post prima osservazione registrata. Soltanto un anno dopo (18 marzo 1993), infatti, la cometa verrà scoperta dal geologo planetario Eugene Schoemaker, dalla moglie Karoline e dall’astronomo David Levy. I 21 frammenti (soprannominati collana di perle per la loro disposizione in fila nello spazio) dopo essersi allontanati dal gigante del nostro Sistema Solare, avevano assunto una nuova orbita che, secondo i calcoli degli astronomi, li avrebbe fatti impattare contro la superficie di Giove tra il 16 e il 24 luglio del 1994. Frattanto, il 14 luglio 1993, la cometa raggiungeva il punto più lontano della sua orbita rispetto al pianeta (detto apogiove), posto nei pressi del pianeta nano Plutone, e iniziava la sua inarrestabile corsa vero la morte.

Le previsioni degli astronomi riguardo all’impatto furono rispettate. L’unico dubbio era se il campo magnetico del pianeta avrebbe potuto sbriciolare i frammenti prima dell’impatto con la superficie del pianeta (si ricorda perlato che Giove è un’enorme palla di gas e che la parte solida si trova solo nel nucleo ndr).
Ma così non avvenne, mentre astronomi e astrofili attendevano con il fiato sospeso l’avvenimento, anche perché l’impatto sarebbe occorso nella faccia nascosta del pianeta, e così avrebbero dovute attendere 10 ore prima di vederne il risultato: era questo, infatti, il tempo necessario perché la rotazione del pianeta ci mostrasse la faccia rimasta nascosta al momento dell’impatto.

Il primo nucleo della cometa, secondo le stime fornite degli scienziati, fece sollevare un fungo di gas di 1600 chilometri al di sopra delle nuvole, mentre i frammenti caddero, uno dopo l’altro, sulla superficie del pianeta a una velocità di 210 000 chilometri all’ora. Dal materiale sollevato si stimò che penetrarono fino a una profondità di mille chilometri, mentre gli echi di questo spettacolo apocalittico giunsero sino a noi: si formarono, infatti, vampate di calore con temperature fino a 31.000 gradi e bagliori così forti da venir riflessi dai quattro satelliti principali del pianeta e, al contempo, nei siti di impatto comparvero macchie scure con diametro compreso fra i 2.500 e i 12.000 chilometri (in grado di contenere quindi la Terra).

Poi la grande massa del pianeta assorbì piano piano le tracce lasciate dai frammenti della cometa, ma rimase la vasta eco di quello scontro ravvicinato fra due corpi celesti a due passi da noi. I risultati dell’impatto consentirono, comunque, di studiare con maggiore precisione la composizione chimica del pianeta. Per esempio, l’impatto sollevò zolfo, la cui presenza era solo ipotizzata in precedenza su Giove, mentre la polvere cometaria diffondendosi sino alle regioni polari, diede vita a immagini molto spettacolari, oscurando anche le aurore boreali gioviane, spettacolari fenomeni che si svolgono nei pressi dei poli magnetici del pianeta.

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